mercoledì 28 marzo 2012

Salvo dall'idiozia dell'essere.

Tra i meriti di Massimiliano Parente si annovera anche quello di aver fatto scrivere a Vittorio Feltri un gran bell'articolo.


Non ho mai recensito un libro e non intendo cominciare ora a scrivere bischerate. Ne ho scritte già tante involontariamente parlando del più e del meno, talvolta anche del per e del diviso. Quando ero un ragazzo, il giornale al quale collaboravo (per il piacere di vedere la mia firma sotto gli articoletti) mi mandava al cinema per criticare, si fa per dire, le prime visioni. Mi è bastata quell’esperienza atroce. Da allora non mi sono più occupato di opere d’arte, vere o presunte, di alcun genere. Non mi sento portato. Non m’importa di nulla se non della cronaca. Per cui ho cominciato a leggere L’inumano di Massimiliano Parente (Mondadori) senza propormi di riferirne su queste colonne, ma solo perché sono curioso e do un’occhiata a quasi tutti i libri che mi capitano fra le mani. Li sfoglio di giorno, tra un lavoro e l’altro, e la sera sul divano in attesa del sonno.
Quello di Parente m’incuriosiva di più perché conosco lui e lo apprezzo per i pezzi pubblicati sul Giornale. Mi garbano le sue idee eccentriche e come le esprime. È talmente bravo che non ha neppure la necessità di darsi delle arie. È spassoso, dissacrante, nemico del banale.
Confesso tuttavia che le prime pagine de L’inumano mi hanno deluso. Speravo che il suo non fosse un romanzo. Invece ho scoperto che lo è. E ciò minacciava di scoraggiarmi dal proseguire nella lettura. Alla mia età, dopo aver letto molti classici e moltissime boiate che ne rifacevano il verso, non si ha voglia di dialoghi improbabili e scontate descrizioni ambientali. Come diceva Leo Longanesi, chissenefrega di apprendere che la signora si alzò dalla poltrona, si recò alla finestra, appoggiò pensierosa la fronte al vetro, guardò giù in strada, osservò il tram sbucare dalla nebbia e fu pervasa dalla malinconia. Ecco, anch’io me ne frego dei tram e soprattutto delle donne malinconiche. Ho già le mie tristezze. I romanzieri la tengono lunga per preparare una battuta folgorante, se ne hanno una. Perché non dare subito la battuta e cancellare il resto, che annoia?
Parente però è uno scrittore speciale. Non schiaccia l’acqua nel mortaio. Forse ha adottato la formula narrativa per dare ordine agli argomenti che gli stavano a cuore. Poteva farne a meno. Il suo pensiero spicca e, per farsi notare, non avrebbe bisogno di cornice, di solito utile per dare valore a ciò che ne ha poco.
Massimiliano seduce perché è un sublime bastardo, crudele e spietato, talvolta cinico. Non sarò mai all’altezza della sua capacità di resistere alla tentazione dell’ipocrisia. Sarebbe un grande chirurgo dell’anima se l’anima non fosse un’invenzione ingegnosa di chi è senza ingegno e non si rassegna a essere un segmento sospeso nel vuoto. Il suo bisturi comunque fa male perché toglie dai cervelli la zavorra che li imbottisce di illusioni: l’immortalità, la resurrezione, il paradiso.
Parente compatisce l’umanità, ma non l’assolve perché essa non fa nulla per uscire dalle favole in cui si è rifugiata ingannando se stessa sul significato della vita. Che non ha significato, e questo genera disperazione e depressione in chi non accetta l’evidenza: l’uomo è una massa di cellule. Quando vanno in disfacimento, e prima o poi ci vanno, finisce anche lui.
Tutto questo non ha senso, per cui ciascuno ne trova uno, e chi non vuole fare la fatica di trovarlo ne piglia uno a caso, quello che preferisce, oppure accetta quello ricevuto in eredità dai genitori. La fede spesso si tramanda, come le tradizioni. Pur di non pensare, c’è gente che pensa a cosa succederà dopo la morte. E si consola immaginando l’aldilà tale quale lo spot televisivo del caffè: nuvole-sofà e San Pietro con tunica e barba bianche.
La grandezza di Massimiliano Parente sta nella capacità di denudare i suoi simili e di renderli ridicoli. Siamo tutti un po’ ridicoli coi nostri perbenismi, cui ultimamente abbiamo aggiunto il politicamente corretto, la tendenza a indignarci e a reclamare rispetto: per l’ambiente, gli animali (che però arrostiamo), la donna, gli omosessuali, i deboli, i bambini, i vecchi. Parole, parole. Cui non corrispondono mai o raramente i comportamenti, i fatti. Ci accontentiamo di apparire sensibili e saggi; quanto a esserlo, marameo.
Se nulla ha un senso, Parente uno ne ha: quello dell’umorismo. Che lo aiuta a dirci con lucidità e amaro divertimento ciò che avevamo intuito, ma che ci sembrava brutto dire finanche a noi stessi, perché disturba scoprirsi come si è: egoisti e vanesi. L’umanità fa schifo perché fa parte della natura, è natura essa stessa, e la natura, almeno quella che ci è consentito osservare da vicino, è un tritacarne dove i sentimenti non esistono. Il microcosmo riflette le stesse schifezze che regnano nel macrocosmo. Se fosse vero che il mondo è stato progettato da un ente superiore, bisognerebbe concludere che è un capolavoro di crudeltà, una gigantesca presa in giro, come il romanzo che il protagonista de L’inumano afferma di aver scritto e che, invece, non ha nemmeno cominciato a scrivere.
Le pagine di Massimiliano hanno il pregio di farti sentire un simpatico cretino che accetta, senza porsi il problema di un rifiuto, ogni conformismo, i sistemi sociali, le etichette, le convenzioni e le forme. Il nostro abito mentale è una stratificazione di bugie pietose che ci raccontiamo l’un l’altro senza renderci conto di complicarci la vita, che desideriamo eterna malgrado sia insopportabile, perché così ce la costruiamo giorno dopo giorno, sognando che il domani sia migliore di oggi. Ma tutte queste sono faccende secondarie per Parente. Lui le «frequenta» da sempre e si sollazza a spiattellarle al lettore, presumendo di scandalizzarlo.
Il risultato è diverso: una volta superato lo stupore, chi legge L’inumano, dopo aver preso dimestichezza con una scrittura scevra di compiacimenti stilistici (tipici dei tromboni amati dal pubblico affascinato dalla loro prosopopea vanitosa), si diletta fino al riso. Ride di se stesso. E allora può dirsi salvo dall’idiozia dell’essere.

Vittorio Feltri - Il Giornale 28/03/2012

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